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Padre Pino Puglisi - Biografia |
15
settembre 1993: in Sicilia, a Palermo, nel giorno
del suo 56° compleanno, veniva ucciso dalla mafia
don Giuseppe Puglisi, un sacerdote che, lontano
dai riflettori, aveva sempre vissuto il suo amore
per il Vangelo schierandosi dalla parte degli
ultimi, non riconoscendo e contrastando la
mentalità e il predominio mafiosi. Nei mesi
immediatamente precedenti al suo delitto, bombe
della mafia erano esplose a Roma in via Fauro (14
maggio), a Firenze in via dei Georgofili, nei
pressi degli Uffizi (27 maggio), a Milano in via
Palestro (27 luglio) e di nuovo a Roma, in quella
stessa notte, davanti alla basilica di San
Giovanni in Laterano e alla chiesa di San Giorgio
al Velabro: 10 morti (tra cui due bambini), 95
feriti, danni per miliardi al patrimonio
artistico. Secondo i collaboratori di giustizia,
un altro attentato era stato preparato per
settembre: un’auto imbottita di esplosivo doveva
saltare davanti allo stadio Olimpico di Roma. Il
progetto non ebbe esito proprio per
l’intensificarsi delle indagini dopo il delitto
Puglisi. Si consumava così, dopo le stragi di
Capaci e di Via D’Amelio che avevano coinvolto nel
1992 i giudici Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino, un altro drammatico momento della
storia italiana. Il 9 maggio 1993, ad Agrigento,
Papa Giovanni Paolo II aveva scagliato un
terribile anatema contro la mafia: “Dio ha detto
una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi
uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non
può cambiare e calpestare questo diritto
santissimo di Dio. [...] Nel nome di Cristo […],
mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un
giorno verrà il giudizio di Dio!”. Come senza
precedenti era stato il discorso del Papa ad
Agrigento, così senza precedenti fu la risposta
dei boss, da Roma all’uccisione di don Puglisi.
Giuseppe Puglisi era nato a Palermo il 15
settembre 1937, da una famiglia umile, ma piena
d’amore e ricca di valori. Il padre è calzolaio,
la madre sarta. Viene ordinato sacerdote il 2
luglio del ’60.
Già a partire dai primi incarichi, la sua opera si
svolge su due fronti: attività con i giovani e
battaglie sociali in difesa della legalità e dei
diritti negati ai più deboli: educazione, salute,
abitazioni decorose. Insegnò matematica e poi
religione in diversi istituti fino alla morte.
Alcuni dei suoi alunni ricordano che, all’inizio
di un anno scolastico, entrò in classe con uno
scatolone vuoto sotto il braccio. Dopo averlo
posato a terra, ci saltò sopra. “Avete capito chi
sono io?”, chiese nello stupore generale. “Un
rompiscatole”, concluse con il sorriso sulle
labbra. Far sì che i giovani pensassero con la
propria testa, interrogandosi su quello che
facevano o meno, che rifiutavano o accettavano, fu
uno dei suoi costanti obiettivi. Visse sempre
poveramente, mangiava scatolette pur di
risparmiare il tempo che dedicava interamente agli
altri, la sua modestissima casa era piena solo di
libri di teologia, filosofia, psicologia e
pedagogia. Era un intellettuale raffinato, ma non
lo faceva capire, mettendo la sua cultura a
servizio di un’innata capacità di entrare
profondamente in contatto con gli altri, a
prescindere dall’estrazione sociale o dal titolo
di studio della persona che si trovava davanti.
Seppe dialogare e collaborare con chiunque
cercasse giustizia e solidarietà, anche se non
credente e su posizioni ideologiche diverse dalle
sue. Gli proposero gli incarichi più gravosi,
scartati da tutti, e lui li accettò, fino a
tornare nel quartiere dove era vissuto da bambino.
Nel 1990 diventa infatti parroco della comunità di
San Gaetano, nel quartiere Brancaccio di Palermo,
uno dei più disagiati e ad alta densità mafiosa. È
una terra di nessuno, dove il lavoro nero, il
contrabbando, lo spaccio di droga, i furti, la
povertà sono all’ordine del giorno. I bambini
vivono in strada e moltissimi di loro evadono la
scuola, anche perché Brancaccio è l’unico
quartiere di Palermo in cui non esiste una scuola
media. C’è la scuola elementare, ma molte persone
non hanno conseguito neppure quella licenza. Manca
anche un asilo nido. C’è inoltre povertà anche dal
punto di vista morale e diversi adulti, ma anche
ragazzi, sono stati o sono tuttora ospiti del
carcere, altre persone vivono agli arresti
domiciliari.
Di fronte a questa situazione, don Puglisi non si
scoraggia. Sostenuto da alcuni collaboratori
affidabili, organizza un corso di alfabetizzazione
e lezioni di teologia di base. Anche a livello
liturgico, opera perché torni a risaltare la
spiritualità dei riti, che depura di molte
tradizioni folkloristiche. Rifiuta l’appoggio dei
politici locali, che non esita a criticare in
pubblico per aver permesso il degrado di
Brancaccio. Ma non basta. È necessario seguire
soprattutto gli adolescenti e gli anziani ed egli,
con l’aiuto di moltissimi, riesce a comprare una
palazzina in vendita proprio di fronte alla chiesa
di San Gaetano. Il 29 gennaio del 1993 viene
inaugurato il Centro Padre Nostro. Don Puglisi è
convinto che a Brancaccio i primi obiettivi sono i
bambini e gli adolescenti perché con loro si è
ancora in tempo, anche se già a quell’età non è
semplice, perché tanti sono costretti a lavorare o
a rubare e tante bambine a fare di peggio, visto
che esistono nel quartiere anche casi di
prostituzione minorile.
Il bambino avrebbe potuto cogliere al Centro un
modello di comportamento diverso, anche solo
guardando due adulti che si trattano con
gentilezza e rispetto e verificando che ci sono
regole da seguire. Per i giovani è molto
importante poter contare sul consenso del gruppo,
della società. È quello che la mafia chiama
“onorabilità”. Per questo era necessario far
sentire i ragazzi partecipi di un “gruppo”
alternativo a quello familiare, dove spesso il
codice mafioso affonda le sue radici, esaltando
chi bara e chi è più furbo. Fondamentale è il
lavoro contro la mafia da portare avanti nelle
scuole in modo capillare e premere sulle autorità
amministrative perché compiano il loro dovere,
tentando di coinvolgere il maggior numero di
persone in una protesta per i diritti civili.
Gli ultimi mesi di don Pino a Brancaccio sono
segnati da una “escalation” di minacce e
avvertimenti contro di lui e i suoi collaboratori.
Per il 25 luglio 1993, don Pino organizza una
manifestazione per ricordare il giudice Paolo
Borsellino. Di mattina, durante la Messa,
pronuncia un’omelia durissima: “Gli assassini,
coloro che vivono e si nutrono di violenza, hanno
perso la dignità umana. Sono meno che uomini, si
degradano da soli, per le loro scelte, al rango di
animali. Mi rivolgo anche ai protagonisti delle
intimidazioni che ci hanno bersagliato.
Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e
conoscere i motivi che vi spingono ad ostacolare
chi tenta di educare i vostri figli alla legalità,
al rispetto reciproco, ai valori della cultura e
della convivenza civile”. La manifestazione del
pomeriggio si risolve in una grande festa. Ma
alcuni volontari e don Pino stesso vengono
minacciati.
A chi lo invitava alla prudenza diceva: “Non ho
paura di morire se quello che dico è la verità”.
“ Me l’aspettavo”: furono queste le ultime parole
di don Pino, rivolte ai suoi killer con un
sorriso. Un sorriso che sconvolse la vita del suo
assassino, Salvatore Grigoli, che, all’epoca del
delitto, aveva 28 anni ed era sposato con tre
bambini. Fu arrestato il 19 giugno del ’97 dopo un
lungo periodo di latitanza, aveva compiuto altre
decine di delitti e attentati. Dopo l’omicidio
Puglisi, è diventato un collaboratore di
giustizia.
Don Pino, semplicemente, non riconobbe il potere
della mafia, invitando la gente a riappropriarsi,
allo stesso modo, della libertà. È un altro
pentito, Giovanni Drago, a ricordare le cause che
scatenarono la rabbia dei boss: “Il prete era una
spina nel fianco. Predicava, predicava, prendeva
ragazzini e li toglieva dalla strada. Faceva
manifestazioni, diceva che si doveva distruggere
la mafia. Insomma ogni giorno martellava,
martellava e rompeva le scatole”.
E’ in corso il suo processo di beatificazione come
martire: già conclusa la fase diocesana, la
documentazione è ora all’esame della Congregazione
per le cause dei Santi in Vaticano. |
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Sinossi |
"ALLA LUCE DEL SOLE"
Un film di Roberto Faenza
SOGGETTO
"Imputato, dica alla Corte perché l'avete fatto".
"Quel prete prendeva i ragazzi dalla strada, ci
martellava con la sua parola, ci rompeva le
scatole".
Era un uomo solo, disarmato.
Per fermarlo lo chiamarono padre, perché era un
sacerdote.
L'assassino, 28 anni, 13 omicidi alle spalle,
teneva in pugno una pistola col silenziatore. Un
altro, mentendo, disse: "E' una rapina".
L'uomo disse solo tre parole: "Me lo aspettavo".
Sorrise, come faceva sempre con tutti.
E fu l'ultimo dei suoi sorrisi.
Chiamato nel 1990 dal vescovo di Palermo a
occuparsi della parrocchia di un quartiere alle
porte della città, Brancaccio, in meno di due anni
riesce a costruire un Centro di accoglienza e
coadiuvato da un gruppetto di volontari, giorno
dopo giorno raccoglie dalla strada e dalla
perdizione decine di piccoli innocenti.
Presto capisce che per incidere in quel tessuto
disgregato bisogna fare e dare di più. Significava
scontrarsi contro l'inerzia e l'incomprensione
della burocrazia locale: per avere una rete
fognaria, una scuola, un distretto sanitario,
tutte cose che a Brancaccio mancano da sempre.
Inevitabilmente il suo percorso lo porta a entrare
in conflitto con gli interessi del potere mafioso,
che da decenni domina la vita quotidiana del
quartiere.
Sono gli anni delle stragi di Capaci e di via
d'Amelio, dove nello spazio di pochi mesi perdono
la vita i giudici Falcone e Borsellino insieme a
tanti altri.
Proprio gli stessi clan che organizzano le stragi
si trovano di fronte quel prete indomabile, quel
parroco che insegna ai ragazzi a credere in un
mondo diverso, a non sottostare alla
sopraffazione.
Lo avvertono: bruciano le case dei suoi
collaboratori, incendiano la chiesa; lo
minacciano, cercano di fare il vuoto attorno a
lui, ma la sua fede non cede alle intimidazioni.
E allora per toglierlo di mezzo non resta che la
strada della viltà estrema.
Questa è la storia di don Giuseppe Puglisi,
ricostruita dopo dieci anni di ricerche,
testimonianze, confidenze.
Fu assassinato il 15 settembre 1993, il giorno del
suo compleanno, perché sottraendo i bambini alla
strada, li sottraeva al reclutamento dei boss, che
nel rione di Brancaccio, dove era nato, hanno
creato da tempo immemorabile un vero e proprio
vivaio di manovalanza criminale.
Ma se don Puglisi fu giudicato da Cosa Nostra una
fastidiosa presenza della quale liberarsi
brutalmente, il suo assassinio fu in realtà
l'epilogo di una lunga catena di incomprensioni e
silenzi da parte di troppi, persino degli
intellettuali "schierati", abituati a esaltare gli
eroi di cartapesta e a dimenticare gli umili che
lavorano in silenzio.
Questa storia si potrebbe definire un caso di
forzata solitudine.
La solitudine dell'uomo che lotta per i suoi
ideali, determinato sino al sacrificio.
"L'uomo che sparava dritto", lo chiamavano i suoi
parrocchiani, tanto alieno al compromesso era il
suo credo.
"Non sono un eroe", diceva di sé, ben sapendo che
per la sua attività era stato condannato a morte.
Ai bambini, al tentativo di offrire loro la
possibilità di crescere in un mondo migliore, ha
dedicato la sua vita don Puglisi, per gli amici e
i seguaci soltanto Pino, oggi in cammino verso il
processo di beatificazione in quanto martire:
citato più volte dal Papa, additato ad esempio da
un numero crescente di giovani, credenti e non
credenti.
Dal suo insegnamento emerge una ineguagliabile
lezione d'amore per la giustizia e la non
violenza, insieme a un forte messaggio pedagogico.
Ma non sono solo questi i motivi che possono
spingere un regista a realizzare un film su una
materia tanto incandescente.
C'è, in fondo, il desiderio di portare alla platea
più vasta possibile e non solo italiana la
conoscenza di una vicenda che ci coinvolge tutti.
Per un desiderio forse impossibile di risarcimento
abbiamo scelto di raccontarla.
Perché raccontare l'impossibile è la forza e
insieme la grande sfida del cinema.
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